Intriso di spiritualità francescana Don Tonino ha attraversato la navata del mondo contemporaneo facendo della propria vita un'esperienza di servizio e di santità. Campione del dialogo, costruttore infaticabile di pace, pastore mite e protettore dei poveri, degli immigrati e degli ultimi. Profeta della speranza, infaticabile testimone dell'amore di Cristo nel tempo, scrittore ispirato, per la freschezza e l'originalità dello stile, per la profondità del messaggio, per la forza del suo linguaggio, capace di parlare ai giovani, agli adulti, lontani o impegnati nella Chiesa, agli ultimi, a ciascuno, personalmente. In quest’anno sacerdotale e nel turbinio degli eventi che stiamo vivendo, il ricordo di don Tonino Bello, in occasione del 17° anniversario della sua morte, è un motivo prezioso per cogliere l’idea che egli aveva del sacerdozio, lui che pur vescovo volle sempre rimanere in qualche modo prete. I suoi pensieri si possono trovare nel libro, pubblicato lo scorso anno “Un testimone giunto dall’avvenire“ dove con la facilità e bellezza del suo discorso fluente così si esprimeva. “Carissimi presbiteri, sentiamo il bisogno di implorare dal cielo il fuoco della festa. La tristezza non può prendere il sopravvento. Non ha diritto di cittadinanza in una comunità di risorti. Il Signore ci ha parlato di lieti annunzi offerti ai poveri. Ci ha detto che egli è venuto per allietare gli afflitti di Sion. Ci ha assicurato la corona invece della cenere, e l’olio di letizia invece dell’abito di lutto. E ci ripete che, invece del cuore mesto, egli preferisce il cantico di lode. Che aspettiamo, allora, a mutare il nostro lamento in danza? Vedete, lo Spirito Santo è festa. E chiunque lo riceve deve annunciare la gioia. Il che significa che per i cresimati c’è il divieto assoluto di essere tristi. Sono figli dell’olio dell’esultanza, che li obbliga a profetizzare la storia a lieto fine del mondo. E ai sacerdoti, sulle cui mani il Crisma viene fatto traboccare nel giorno della ordinazione, è affidato il ministero dell’Eucaristia, che è il banchetto della festa. Su di loro incombe l'obbligo di essere profeti del sabato eterno, dove «non ci sarà né pianto, né lutto, e tutte le lacrime saranno asciugate per sempre dagli occhi dell’uomo». Coraggio, allora, carissimi fratelli presbiteri, a cui in questo momento mi rivolgo in modo privilegiato, visto che quella del Giovedì Santo è la giornata del vostro compleanno. Siate gli uomini della festa. Gli irriducibili cantori dell'alleluia pasquale perfino nei vortici delle tragedie. La gioia dilaghi dal vostro cuore di carne, e contagi tutti coloro che vi accostano, sorpresi di tanta freschezza. Non ci sia catastrofe umana che freni l’onda lunga della vostra letizia. Nessuna delusione pastorale vi spenga il sorriso sulle labbra, o attenui l'estasi dei vostri annunci di liberazione, o appanni il lampeggiamento dei vostri occhi che hanno contemplato il volto di Dio. Léon Bloy diceva che esiste una sola tristezza: quella di non essere santi abbastanza. Se è così, adoperatevi perché venga rimosso ogni ostacolo che vi impedisce di vivere fino in fondo i misteri gaudiosi del vostro servizio sacerdotale, e di essere per tutti “sacramento della festa”. Segno e strumento, cioè, di una letizia pasquale che straripa dalle sponde dei recinti sacri e allaga gli spazi profani. Allora la gente capirà dov’è la fontana da cui attingete le acque della speranza, e tutti andranno, dietro vostra indicazione, ad abbeverarsi direttamente alle sorgenti del Salvatore. Donate con gioia. Senza risparmio. Senza riprendervi a rate ciò che un giorno (in quel giorno di festa che il ricordo ripopola di volti carissimi e di stormi di campane) avete regalato in blocco al Signore. Tra poco ripeterete l’offertorio della vostra vita, promettendo al Maestro la più assoluta fedeltà, nonostante la fatica di doverlo seguire, soprattutto in salita. Quest'offertorio, rinnovatelo a voce spiegata. Non a denti stretti. Con l'anima libera da ogni riserva. Da professionisti della gioia. Versando l’olio per alimentare le lampade del mondo. Con lo spirito di chi immola qualcosa per nutrire la festa degli altri. E l’olio di esultanza, di cui anche le mani dei presbiteri più presbiteri profumano ancora, accrescerà l'entusiasmo dove c'è l'appiattimento, farà esplodere la novità dove regna l’assuefazione, e accenderà la luce della giovinezza perfino nei cuori rassegnati ai crepuscoli della vecchiaia. Chiedete al Signore il fuoco della festa. Per incendiare il mondo con le vampe della profezia e incenerire gli schemi della sua logica antica. E siccome la festa non irrompe mai nella solitudine, ma solo dove si gode la compagnia degli amici, implorate, carissimi presbiteri, il dono della comunione. Soli si muore, dice un vecchio malinconico ritornello. Ricercatevi, perciò, per concertare insieme. Interpellatevi per non viaggiare su binari diversi. Privilegiate i percorsi pastorali concordati con gli altri, piuttosto che le piste della vostra bravura solitaria. Saranno anche piste geniali, ma senza canti di festa. Il Signore benedica tutti perché non ci venga mai meno l’alacrità dei passi, lo scatto delle accelerazioni, la passione nelle parole, il coraggio nelle scelte difficili, la presa sui nostri compagni di viaggio per contagiarli di esultanza. E infine, carissimi presbiteri, chiediamo a questo popolo che siamo chiamati a servire, e nelle cui vene vogliamo accendere il fuoco della festa, che sia anche lui, una volta tanto, a stendere su di noi un largo benedicente segno di croce.”