Ricorre in questi giorni pasquali l’anniversario della morte del Servo di Dio don Tonino Bello.
Quello che sembra sempre strano è che pur essendo trascorsi diciotto anni dalla sua scomparsa, la sua voce, invece che spegnersi lentamente ma inesorabilmente, come avviene per tante realtà, continua a suscitare una risonanza crescente. Diciotto anni non sono pochi. Eppure la sua parola continua a sollecitare audaci scelte di vita, a liberare inusitate riserve di energia, a sollecitare inattese forme di impegno, a fecondare esigenti percorsi di condivisione, a evocare uno struggente desiderio di purezza, cioè di silenzio e di preghiera.
Sono passati diciotto anni eppure la sua parola sembra rigenerarsi di vitalità.
C’è dell’inspiegabile in questa dinamica che sovverte le naturali leggi della memoria. Le sovverte fino a rovesciarle. Ed è ancora più inspiegabile perché spontanea, assolutamente, integralmente spontanea. Senza sostegni promozionali, senza piani editoriali, senza campagne di marketing. E senza ombrelli istituzionali. Null’altro che la sua parola, nuda, essenziale ma fresca, generatrice, profetica. C’è dell’inspiegabile, qualcosa che sfugge alla contabilità del successo umano, quella fondata sulla consistenza, nel bilancio di una vita, dei capitoli relativi al potere e alla notorietà. Nell’opinione diffusa sono il prestigio del ruolo sociale e la fama pubblica a determinare la permanenza nella memoria comune.
Nel caso di don Tonino così non è stato. Altra la sua sfida. E di ben altra natura. Don Tonino ha voluto testimoniare che il successo, cioè la pienezza e, dunque, il senso non sta in cima alla gerarchia delle nostre costruzioni umane ma, giusto al contrario, in fondo al cuore delle persone, nella parte più riposta e meno conosciuta di ciascuno di noi. Lì può scoccare la scintilla che accende nella vita il fuoco dell’imprevedibile. Lì l’orizzonte angusto e ristretto delle piccole cose quotidiane, affollato di affanni e di pene, può dilatarsi fino a toccare l’infinito. Lì, proprio nella parte più profonda del cuore, l’umano può elevarsi nella sua grandezza persino divina. Avere fiducia nel cuore delle persone significa, in fondo, credere nella forza dell’amore.
Ecco, la sovversione di don Tonino, che è poi sempre la stessa del Vangelo, è stata questa: a scommettere che l’amore abbia una sua intrinseca forza. Una forza che agisce non solo potentemente nella vita delle persone singole ma possiede un suo autonomo potenziale di cambiamento anche nelle vicende sociali.
La forza dell’amore è così energica che produce un impatto diretto su tutte le strutture del potere, perché le erode, le svuota dall’interno semplicemente corrispondendo una diversa, suprema sovranità, quella delle persone. “Ama e fa quello che vuoi” don Tonino soleva ripetere con Sant’Agostino. Si può amare ed è amore maturo, adulto che si nutre di passione dentro di se e di com-passione con l’altro, dunque, costa fatica, dolore, sofferenza, anche conflitto.
Ed è amore che cammina sulla strada, mastica polvere, suda, cade, talvolta arranca smarrito e solo, eppure sa che è vita. Perchè sa che il cambiamento, il “non ancora” può nascere solo da una contrazione necessaria.
Sono passati diciotto anni. Quanti ne bastano per comprendere che l’amore per la vita, sprigionato da don Tonino, è una forza che può vincere non solo le leggi dello spazio ma anche quelle della storia e del tempo.
La stessa nostra fede, nella sua radicale anomalia, non è altro che il riconoscimento della persona che ha rivelato l’esistenza di questa forza come motrice delle relazioni umane. Per questa ragione, per don Tonino, assiduo frequentatore del Vangelo, Gesù di Nazareth e Francesco di Assisi rappresentavano due volti della stessa rivelazione. Due testimonianze della stessa sfida.
Non ho ritenuto scrivere parole mie quest’anno, per farne memoria, avendo trovato molto significativo quest’articolo di Guglielmo Minervini apparso sulla rivista “il Grembiule”, notiziario ufficiale della Fondazione “don Tonino Bello”. Rimangono sempre vivi i suoi gesti e le sue parole che hanno aiutato tanti a «varcare la soglia della speranza».
don Maurizio Qualizza