† Carlo Roberto Maria Redaelli
Arcivescovo Metropolita di Gorizia
«Sapete ciò che vi ho fatto? Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri».
Solitamente, quando leggiamo questa pagina che apre la passione secondo Giovanni, ci soffermiamo su queste ultime parole di Gesù, quelle con le quali commenta il suo gesto e lo propone come esempio da imitare da parte dei suoi discepoli.
Non è sbagliato fare così e potrebbe essere spontaneo in questa celebrazione attribuire anzitutto al vescovo il compito di essere imitatore di Gesù nel farsi servo degli altri e vederlo quindi come il primo dei servi.
In realtà, al di là di una facile retorica ecclesiale, l’esperienza insegna che spesso il vescovo è servito più che servitore se non altro perché è circondato dal rispetto, dalla stima e non raramente dall’affetto di tanti fedeli disposti a dargli una mano. Non è una cosa brutta e ringrazio il Signore per tutta la vicinanza, l’affetto e la disponibilità che ho trovato a Milano e che sto trovando qui a Gorizia già da questi primi giorni.
Ciò non toglie tutta la verità e l’impegno che nasce dall’invito del Signore. Un invito che ci riguarda tutti se vogliamo essere suoi discepoli, ciascuno secondo la propria vocazione.
Per comprendere bene questo invito non dobbiamo però guardare subito a noi e al nostro impegno. Dobbiamo invece guardare a Gesù. Lui non è solo un modello per il nostro servire o – come ci ha ricordato la lettura di Cromazio – per la nostra umiltà, ma è anzitutto il nostro servitore.
Se siamo sinceri dobbiamo riconoscere che è facile accettarlo come modello del nostro impegno, ma non è facile accettarlo come Colui che ci serve fino al punto da chinarsi davanti a noi e lavarci i piedi.
In questo siamo molto simili a san Pietro. Pensiamo infatti di essere noi a dover fare qualcosa per Gesù, mentre in realtà è Lui che fa tutto per noi. Abbiamo dentro di noi la tendenza innata a essere noi i protagonisti, a salvarci da soli attendendoci dal Signore solo qualche indicazione e qualche aiuto. E allora come Pietro ci sentiamo in dovere di schernirci, di fargli presente che non è necessario che Lui si abbassi, che – insomma – in qualche modo ce la caviamo noi da soli e caso mai è Lui che ha bisogno di noi. Pensare così vuol dire non avere capito niente del Vangelo e, soprattutto non conoscere Gesù.
Il Vangelo non è un’elencazione di principi per vivere bene, né un manuale di impegni da svolgere, ma è la buona e sorprendente notizia che il Signore ci salva. Ci salva non perché siamo bravi e in qualche modo ce lo meritiamo, ma perché Lui ci ama.
E ci salva a modo suo, servendoci e dando la vita. In realtà servire e dare la vita sono la stessa cosa. In questo senso le parole solenni con cui si apre il brano di Giovanni – «sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» - sono contemporaneamente l’introduzione alla passione e l’introduzione alla lavanda dei piedi, un gesto così importante per l’evangelista Giovanni da prendere il posto dell’Eucaristia.
Non può quindi essere ridotto a qualcosa che vuole dare un esempio e neppure a un gesto di umiltà del Signore che, pur essendo appunto il Signore, si è abbassato fino a noi e si è fatto nostro servo. E’ molto di più. In realtà è la rivelazione di chi è Gesù.
A questo proposito ricordo di essere stato molto impressionato, qualche anno fa, nel leggere in una meditazione del card. Martini, un’interpretazione del gesto della lavanda dei piedi compiuto da Gesù nell’ultima cena, non come il suo abbassarsi a servirci, ma come la rivelazione più profonda dell’essenza di Dio: Dio che si manifesta come l’amore che serve.
In altre parole: Gesù Cristo non sarebbe il Figlio di Dio che si è abbassato prendendo la figura di servo, ma sarebbe la rivelazione della vera natura di Dio, che è il servire.
Esagerato? Eppure nel vangelo di Luca al cap. 12 Gesù afferma: «Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli». Si parla in questo passo del compimento definitivo, di quello che sarà il Regno di Dio e allora il Signore ripeterà esattamente il gesto dell’ultima cena. La natura più profonda e definitiva del Dio amore si rivela a noi pertanto come amore che serve.
Se è così e se noi siamo sua immagine e somiglianza, allora ciò che manifesta il nostro vero essere è il servire. Non si tratta, quindi, di una generosità per così dire aggiuntiva, ma del nostro pieno realizzarci a imitazione di Dio che è e sarà il nostro servo.
Chi ama serve, perché il servire è il concreto volto dell’amore, è la vita donata nella quotidianità, è il presupposto reale e concreto anche dei gesti più estremi di amore. Ed è per questo che stando al Vangelo di Giovanni Gesù è in grado di morire in croce perché prima ha lavato come servo i piedi dei suoi apostoli…
Signore donaci la grazia di comprendere chi sei Tu, fa’ che ci lasciamo servire da Te. Solo così sapremo a nostra volta servire comprendendo fino in fondo cosa vuol dire essere figli di un Dio che è servo.